Celle.

Ogni volta che arrivo a Celle è come se il tempo perdesse la sua linearità. Il passato, il presente e il futuro si mescolano tra di loro e io mi faccio acqua. Appena supero il casello dell’autostrada e vedo il mare abbasso i finestrini, respiro e dentro di me iniziano ad agitarsi onde di ricordi, emozioni, sensazioni che faccio fatica a governare. Dovrei essere il capitano della mia nave, tenere bene fermo tra le mani il timone della mia emotività e invece no. Io ogni volta mi tuffo in acqua e mi ritrovo a nuotare spinta con forza dalle correnti. So perché succede. In quel paesino della Liguria, in quella casa, sono cresciute tutte le generazioni della mia famiglia. Mia nonna, mia mamma e le sue cugine, io, mia sorella e i miei cugini e ora i miei bimbi, i miei nipoti. Ogni pianta, ogni albero, ogni dettaglio di quella casa racchiudono per ognuno di noi universi di ricordi. Il rumore del cancelletto arrugginito appena arriviamo, l’odore di umidità nelle stanze, le foto alle pareti, sempre le stesse, i copriletti ormai lisi a righe bianche e rosse. Ho un ricordo e una sensazione per ogni oggetto, per ogni scorcio, per ogni stanza. E i miei ricordi si mischiano a quelli di tutti gli altri. Salgono in superficie gli anelli di congiunzione. Quei perché addormentati che raccontano chi siamo e da dove arriviamo e per quale motivo stiamo vivendo proprio questo proprio in questo modo. D’estate mi accoglie ogni volta l’oleandro con i suoi fiori rosa salmone e mentre passo la scopa per togliere dal pavimento i petali caduti che poi diventano marci e si appiccicano sotto i piedi, rivedo seduta al tavolino del giardino mia nonna. La immagino sempre lì, mentre lavora a maglia o fa le parole crociate con la radiolina accesa a farle compagnia e il suo sorriso dietro gli occhiali quando mi vede arrivare dalla spiaggia. Mi piace andare in quella che era camera sua che oggi è la camera dove dorme mia mamma. Anche i mobili sono sempre gli stessi. Mi avvicino alla specchiera e immagino di vedere ancora le scatole con la bigiotteria. I suoi orecchini con le clips con le perle grandi che adoravo provare. A volte spiavo nei suoi cassetti, aprivo la scatola della cipria e la annusavo. Sento ancora quel profumo di rosa intorno a me. Una vaporosa nuvola bianca che mi fa vedere ancora quello che non c’è più. Mi piacerebbe tornare indietro. Rimettermi sul lettino dopo pranzo ad ascoltare il canto delle cicale annusando le mie braccia ancora salate, seguire le lucertole, cercare i pinoli e mangiarmeli tutti, infilarmi di nascosto nella casa accanto che ora è abitata ma che un tempo era vuota, teatro delle mie grandi avventure immaginarie. È struggente, andare a Celle perché è un continuo passarsi il testimone. Tenere unite le fila, mentre il tempo passa e da bambine diventiamo, donne, mamme e nonne. 

E la mattina, quando la casa si sveglia e ci ritroviamo tutti a fare colazione in veranda, spettinati, con il pigiama e i segni dei cuscini sulla faccia, il resto del mondo rimane lontano e io fermo il tempo per un attimo e rubo un altro ricordo che nessuno mi potrà mai portare via.

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