Mi ha donato 30 minuti al mattino da sola con il mio bimbo. Lasciamo sua sorella a scuola e ci rimane quel tempo tutto per noi, prima che entri a scuola anche lui.
Io corro sempre. La mia vita è un micidiale gioco di incastri imperfetti in cui spesso ho la sensazione di essere come la mia cagnolina, che ogni tanto corre sbilenca con la lingua di fuori.
Ecco, in questa mia esistenza sempre in affanno e un po’ stortarella, ora ci sono questi 30 minuti preziosissimi di sospensione. Giochiamo a fare i turisti: una colazione al bar in tête-à-tête, una gita al Monte dei Cappuccini ad ammirare la città dall’alto io con il mio caffè americano, lui con la pizzetta margherita e la mia giacca sulle spalle. Il sole che fa capolino da dietro le colline, una candelina accesa nella chiesa per sprigionare intenti buoni nel mondo e le risate trattenute quando incrociamo il Frate Cappuccino: “Frateme mamma Frateme!”. Oppure andiamo a fare due passi nel bosco a raccogliere castagne o semplicemente rimaniamo in macchina al caldo a chiacchierare. E in tutti quei minuti saltelliamo con la fantasia e ci prendiamo cura di noi. È un tempo senza pensieri e pieno d’amore che vorremmo non finisse mai. Da quando abbiamo conquistato questo spazio tutto nostro, si è creato anche il rituale del doppio saluto: ci salutiamo una volta, ci allontaniamo uno dall’altro e poi torniamo indietro per darci ancora un abbraccio e augurarci buona giornata, sapendo che è iniziata proprio bene, così, tra di noi. Mi sento fortunata perché se è vero che nulla permane so però che questo tempo per noi durerà due anni e ho intenzione di godermeli tutti.
A tutti i bambini, grandi e piccini che possano diventare farfalle, spalancare le ali, vivere pienamente, compiere il destino per cui sono nati.
C’era una volta un bruco. Era verde come la speranza ed era un inguaribile ghiottone ma a differenza di tutti gli atri bruchi rifiutava l’idea di diventare farfalla.
“Perché dovrei diventare farfalla? Vivere qualche giorno di gloria e poi appassire come il petalo di un fiore?”.
Diceva alla sua amica coccinella, sgranocchiando la tenera foglia di un gelsomino. La coccinella aveva appena finito di farsi largo in mezzo a un assembramento di Afidi e ora si contava i pois.
“Amico mio… davvero pensi che sia meglio passare la tua vita a mangiare sulle foglie, circondata da pidocchi al posto di spalancare le ali e volare sui tetti del mondo? Far innamorare l’universo con la tua bellezza e riflettere le ore del giorno? Scoprire cosa c’è oltre la siepe e che sapore ha il nettare dei fiori?”.
Bruco rispondeva svogliato “Bah… se lo dici tu. A me sembra non sembra così bello, volare come un uccello.”
Il tempo passava, e Bruco cambiava. Per quanto l’idea non gli piacesse la natura guidava. Per quanto lui provasse a cambiare il corso della corrente, l’universo lo portava là dove era destinato ad andare.
Una mattina si svegliò con le prime luci del mattino. Gocce di rugiada creavano fili di perle intorno a lui. A Bruco venne voglia di sgranchirsi le zampe. In quel momento si accorse di non potersi muovere. Un bozzolo duro e coriaceo aveva iniziato a circondare il suo corpo. Bruco rimase intrappolato. Nel giro di pochi giorni si ritrovò completamente rinchiuso in quella scatola argentata. Intorpidito, come se sprofondasse in un tiepido lago, si addormentò.
Coccinella ogni giorno andava a trovarlo. Controllava lo stato del bozzolo e sorrideva. Sapeva che tutto sarebbe andato per il meglio.
Passarono i giorni. Una mattina il sole decise di farsi avanti. Salì alto nel cielo e con un raggio avvolse il bozzolo. La luce calda fece breccia sulla sua dura superficie. L’involucro prezioso si schiuse all’improvviso come una conchiglia.
Coccinella arrivò senza fiato per il lungo volo e piano piano si avvicinò. Non sapeva bene cosa aspettarsi e un poco sbiadì per l’agitazione. Bruco non era più bruco. Al suo posto una meravigliosa creatura spalancò due grandi ali per lasciarle asciugare dalla brezza. Microscopici pigmenti riflettevano i colori dell’arcobaleno e creavano straordinari disegni. Due lunghe antenne incoronavano fiere il suo capo.
Coccinella guardò il suo amico cambiato. Il suo corpo era pieno di grazia e allo stesso tempo emanava una forza sconosciuta, l’impeto del vento che trasforma e porta con sé.
La sua bellezza abbagliava, rifletteva tutti i colori del mondo per poi disperderli intorno come polvere di luce.
Coccinella guardò farfalla.
Farfalla guardò coccinella e le regalò un sorriso che era un po’ un addio, non all’amicizia ma a tutto ciò che non erano più.
Poi, con un battito d’ali si sollevò in alto nel cielo. Sentiva il profumo del nettare, della terra umida, messaggi portati dal mondo.
Quel corpo che era stato un po’ goffo e lento, ora non aveva peso. Poteva andare ovunque volesse. Sulla cima degli alberi, tra i fiori di ciliegio e fare zig zag tra i fili d’erba.
Poteva andare anche laggiù, oltre la siepe, oltre tutto ciò che già conosceva per un tempo che, non sapeva quanto sarebbe durato e non importava.
Coccinella ogni tanto si sollevava spiccava il volo anche lei, non andava troppo in alto e nemmeno troppo lontano. Quel che le bastava per vedere il suo splendido amico nel vento.
Fra tutte le frasi ricorrenti che sento ripetere da quando sono diventata mamma ce n’è una in particolare che mi scatena sempre delle reazioni di fastidio misto a “ma veramente?”. Arriva così, all’improvviso come Gue Pequeno per Rose Villain mentre sei al parchetto, in attesa all’uscita da scuola, alla festina di compleanno. Tu sei lì serena che pensi a cosa preparare la sera per cena e senza preavviso eccola lì, la fatidica frase: “sai com’è, mio figlio dove lo metti sta”. Esiste questa stramba abitudine fra genitori di parlare dei figli come se fossero dei vasi da fiori. Lo vedi quel bambino biondo con gli occhi azzurri? Sta bene ovunque non trovi? Il fatto è che io mio figlio normalmente non “lo metto” in un posto. Lo posso mandare, iscrivere, portare a volte magari lo posso anche lanciare. Ma metterlo no. Metterlo presuppone una totale assenza di movimento, respiro, battito cardiaco, dialogo. Un vaso di fiori appunto. Normalmente la frase viene usata dai genitori per celare una manciata di narcisismo: mio figlio è perfetto, non fa capricci, gli va bene tutto, piace a tutti non ha mai problemi appunto… dove lo metti sta.
Mi sono chiesta a lungo perché questa frase mi desse così fastidio. Forse perché i miei figli non stanno dove li metto? Perché non gli va bene sempre tutto e non stanno bene ovunque? O forse perché io da bambina sono stata per così tanto tempo vaso da fiori da arrivare a rompermi pur di essere libera? Ho poi capito che in questa frase da arredatori di interni si nasconde anche una profonda paura dei problemi perché viviamo in una società che parla molto di inclusione e poco di valore dell’imperfezione. La mia vita mi ha insegnato che la manifestazione dei problemi, dei sentimenti e delle emozioni è la cosa più sana che ci sia. Ho anche capito, vivendo, che nessuna famiglia è perfetta ma che affrontare i problemi porta molto lontano. So anche che gli stessi errori che io recriminavo ai miei genitori probabilmente li sto facendo con i miei bambini e se non sono gli stessi sicuramente ne sto commettendo altri perché siamo umani. Sto imparando attraverso i miei figli che l’importante non è che a loro vada bene tutto e che loro vadano bene a tutti ma che si sentano sempre amati così come sono. Non è facile in questo mondo dire “non sto bene, non va tutto bene” e sono giunta alla conclusione che sia una fortuna avere dei figli capaci di dirlo e di esprimerlo (anche in modo potente ed esplosivo). Perché ci danno l’opportunità di aiutarli e perché se anche forse oggi per loro non è tutto facile sicuramente si stanno attrezzando per diventare individui liberi, empatici e consapevoli. Siamo fatti così noi 4. Non stiamo dove ci mettono e va bene così.
Hai visto? Ricominciare non è poi così male! È come avere un foglio bianco tutto da colorare. Sai cosa devi fare con tutte quelle etichette che i grandi ti avevano appiccicato addosso? Levatele dalla spalle, sono solo polvere. Aspetta, fammi soffiare forte. Ecco, guarda, è andata via. Ora sei di nuovo libero di essere te stesso. Ti puoi reinventare. Le parole hanno un potere te ne sei accorto? Come ti fai chiamare a scuola? Hai scelto il tuo nome. Pieno, forte, rotondo, chiaro. Quello registrato all’anagrafe. Basta soprannomi.
Tu non vuoi essere “parte di te” ma completamente te stesso. “Non voglio essere trattato come quello strano”. Eccola qui bambini, una vita “normale”. In cui sentirvi amati e accolti e accettati per come siete. In cui imparare che le difficoltà si affrontano insieme e che meritate di crescere in mezzo ai sorrisi. Sei molto sensibile alle parole. Come se potessero ancora farti male. Note sul diario delle pareti del cuore. Come se potessero rinchiuderti di nuovo in una gabbia in cui non ti senti abbastanza. Allora io sto attenta. Scelgo bene come dirti quello che penso. Parole che spalancano porte. Ci provo. Mi faccio grande per te. Tengo a bada le emozioni per dimostrarti con i fatti ciò che ti ho trasmesso guardandoti negli occhi. Vogliamo che tu stia bene ma siamo grandi e forti e possiamo ascoltarti se qualcosa non va. Possiamo aiutarti se hai bisogno di aiuto. Vieni qui. Le vedi le mie braccia? Sono tornate forti. Possiamo sopportare le tue sofferenze perché siamo adulti e tu sei il nostro bambino. Buona nuova vita allora. A tutti gli esseri umani che stanno ricominciando da capo. A chiunque oggi abbia la possibilità di ridisegnare se stesso. Creando uno spazio in cui sentirsi libero di esistere. In cui poter esprimere le proprie potenzialità. Senza etichette. Senza pregiudizi. In mezzo ad adulti grandi e risolti abbastanza da far passare la paura. “Che bella questa vita mamma”. Ok. Ora, va tutto bene.
Quando ero piccola ma non troppo, in quella spaesante terra di mezzo in cui non sei più bambina ma nemmeno ragazza mia madre un giorno mi scrisse una lettera. In quella lettera usò la metafora dei fiori per farmi capire che ognuno di noi è unico e perfetto così com’è e che non dobbiamo mai pensare di dover assomigliare a qualcun altro. Fece il paragone tra una rosa che è sotto gli occhi di tutti, intensa e seducente con i suoi petali vellutati e un’orchidea. L’orchidea mi scrisse non si fa vedere da tutti. Si nasconde in mezzo agli alberi ma quando la scopri lei si mostra in tutta la sua bellezza. Io per lei ero un’orchidea. Mi rimase impressa per sempre questa metafora e mi aiutò per tutta la vita a riconoscere la mia essenza e a considerare certe parti di me come la timidezza, la tendenza a stare un po’ nell’ombra, valori e non difetti. Ultimamente ho scoperto che esiste una pratica buddista che si chiama “innaffiare i fiori”. È un rituale che ci chiede di esprimere una caratteristica dell’altra persona che riteniamo una qualità. Siamo tutti come fiori. Unici, pieni di freschezza, pronti a fiorire (e a rifiorire) se riceviamo i nutrimenti di cui abbiamo bisogno. L’amore, la gentilezza, il rispetto, il riflesso dell’altro nei nostri occhi. Noi possiamo essere per i nostri bimbi quell’acqua che permette loro di crescere e sbocciare. Li possiamo innaffiare mostrando loro quanto sono belle tutte quelle sfumature che li rendono individui irripetibili. E lo so che è un mondo che ci fa sentire sempre un po’ fuoriluogo, sradicati, scollegati dal nostro cuore. Ma forse con piccoli gesti, una passeggiata in mezzo alla natura o un disegno a casa fatto insieme, un momento condiviso per mostrargli attraverso il nostro sguardo tutta la loro freschezza… forse possiamo nutrire i nostri bimbi e riportarli a casa. Quella casa che è dentro ognuno di noi.
Ogni volta che arrivo a Celle è come se il tempo perdesse la sua linearità. Il passato, il presente e il futuro si mescolano tra di loro e io mi faccio acqua. Appena supero il casello dell’autostrada e vedo il mare abbasso i finestrini, respiro e dentro di me iniziano ad agitarsi onde di ricordi, emozioni, sensazioni che faccio fatica a governare. Dovrei essere il capitano della mia nave, tenere bene fermo tra le mani il timone della mia emotività e invece no. Io ogni volta mi tuffo in acqua e mi ritrovo a nuotare spinta con forza dalle correnti. So perché succede. In quel paesino della Liguria, in quella casa, sono cresciute tutte le generazioni della mia famiglia. Mia nonna, mia mamma e le sue cugine, io, mia sorella e i miei cugini e ora i miei bimbi, i miei nipoti. Ogni pianta, ogni albero, ogni dettaglio di quella casa racchiudono per ognuno di noi universi di ricordi. Il rumore del cancelletto arrugginito appena arriviamo, l’odore di umidità nelle stanze, le foto alle pareti, sempre le stesse, i copriletti ormai lisi a righe bianche e rosse. Ho un ricordo e una sensazione per ogni oggetto, per ogni scorcio, per ogni stanza. E i miei ricordi si mischiano a quelli di tutti gli altri. Salgono in superficie gli anelli di congiunzione. Quei perché addormentati che raccontano chi siamo e da dove arriviamo e per quale motivo stiamo vivendo proprio questo proprio in questo modo. D’estate mi accoglie ogni volta l’oleandro con i suoi fiori rosa salmone e mentre passo la scopa per togliere dal pavimento i petali caduti che poi diventano marci e si appiccicano sotto i piedi, rivedo seduta al tavolino del giardino mia nonna. La immagino sempre lì, mentre lavora a maglia o fa le parole crociate con la radiolina accesa a farle compagnia e il suo sorriso dietro gli occhiali quando mi vede arrivare dalla spiaggia. Mi piace andare in quella che era camera sua che oggi è la camera dove dorme mia mamma. Anche i mobili sono sempre gli stessi. Mi avvicino alla specchiera e immagino di vedere ancora le scatole con la bigiotteria. I suoi orecchini con le clips con le perle grandi che adoravo provare. A volte spiavo nei suoi cassetti, aprivo la scatola della cipria e la annusavo. Sento ancora quel profumo di rosa intorno a me. Una vaporosa nuvola bianca che mi fa vedere ancora quello che non c’è più. Mi piacerebbe tornare indietro. Rimettermi sul lettino dopo pranzo ad ascoltare il canto delle cicale annusando le mie braccia ancora salate, seguire le lucertole, cercare i pinoli e mangiarmeli tutti, infilarmi di nascosto nella casa accanto che ora è abitata ma che un tempo era vuota, teatro delle mie grandi avventure immaginarie. È struggente, andare a Celle perché è un continuo passarsi il testimone. Tenere unite le fila, mentre il tempo passa e da bambine diventiamo, donne, mamme e nonne.
E la mattina, quando la casa si sveglia e ci ritroviamo tutti a fare colazione in veranda, spettinati, con il pigiama e i segni dei cuscini sulla faccia, il resto del mondo rimane lontano e io fermo il tempo per un attimo e rubo un altro ricordo che nessuno mi potrà mai portare via.
Accanto alla stanza di Nina e Nena c’era un grande salice piangente. I suoi lunghi rami cadevano come braccia a cascata verso la terra e quando erano scossi dal vento sembravano spazzare via dolcemente la polvere dai pensieri. D’estate questo gigante buono diventava il custode del riposo, il riparo dall’afa, una tenda segreta dove prendersi il tempo di respirare dopo un anno di fatiche. Le due sorelline aspettavano la fine della scuola per riconquistare il loro angolo protetto. Prendevano una coperta, le loro bambole preferite e correvano a distendersi riparate da quell’amico gentile sotto il quale sembrava che niente e nessuno oltre a loro potesse entrare. Quel fazzoletto di giardino per giorni interi diventava la loro seconda casa.
Si dice che il Salice si chiami piangente perché è vicino all’acqua.
I suoi lunghi rami si tuffano come se volessero portare gocce di cielo alla terra per ricordarci che niente è così lontano come sembra.
Le bambine ogni tanto immaginavano che quella fosse la loro barca, circondata da un mare pronto ad accogliere i cambiamenti che ad ogni estate le rendeva nuove e diverse dall’anno prima.
Quando faceva molto molto caldo a volte si appendevano ai rami e fingevano di essere eroine della giungla. Selvagge coraggiose e spericolate pronte a sconfiggere tutte le paure. Un anno però i rami iniziarono a spezzarsi sotto al peso dei loro corpi. Le bambole rimasero chiuse in un armadio e la coperta iniziò ad accogliere nuove storie.
Distese per terra a pancia in su guardavano verso l’alto. I raggi del sole caldo di giugno facevano capolino tra le foglie e le loro parole svolazzavano disordinate come farfalle. Uno sciame di “sai che oggi, sai mi ha detto e poi ha fatto sai come secondo te secondo lei e tu e noi e loro e gli altri?”. La scuola, gli amici, le amiche, i bigliettini scambiati sotto il banco, i diari segreti, le vacanze e le promesse da mantenere. I silenzi poi, erano colmi di vita, palpiti sconosciuti dei loro giovani cuori. Era bello, lasciare i propri pensieri galleggiare nella tiepida aria dell’estate, lasciarli andare alla deriva per poi ritornare sulla terra ferma.
“Nina intrecciamo i rami?”
“Sì facciamo due trecce e poi le uniamo”.
Così si tesseva la trama delle loro vite. Ognuna per sé, alla scoperta di nuovi mondi che si incontravano sotto il sacro cerchio di quel magico custode.
Le emozioni non evaporano subito, come pioggia al sole. Tutti quei sapori di novità, quel dolce profumo di cambiamento, i segreti sbocciati, i corpi così presenti, abitavano quell’angolo magico. Un vociare invisibile che si confondeva con il fruscio delle foglie.
Si dice che d’estate, durante le notti di luna piena, i rami dei salici inizino a danzare. Le loro ombre fluttuano come capelli nel mare e le lucciole si riuniscono sotto le loro fronde a fare festa. Sono le notti in cui l’universo intero respira e celebra ogni rinascita.
Oggi quel salice, testimone della loro crescita non c’è più. Eppure se capita di passare proprio lì, dove un tempo le sue foglie ospitavano i segreti di due bambine che diventavano donne, viene voglia di fermarsi ad ascoltare e lasciarsi cullare da quella danza della vita.
La libertà non è fissa e immutabile. Si scolpisce sulla pietra e poi il vento, le maree le piogge della vita ne definiscono la forma. Può essere profonda, come una grotta in cui ritrovare il proprio fuoco o lieve, accennata e sfuggente come una carezza.
Muta la libertà, continuamente. Come le stagioni, come le temperature del nostro cuore.
Nena e Nina crescendo la cercavano andando a tentativi. Due stanze separate, un bagno per condividere. Amici solo miei, amici solo tuoi, amici di tutte e due.
“Ora basta però, fatti più in là, dammi aria, fammi esistere un po’ da sola”.
A volte si pestavano i piedi, infilavano le braccia una nel golf dell’altra per capire quale fosse la loro vera misura. Una danza scoordinata, due passi più vicine, tre più lontane.
Cercavano il loro spazio per esistere, prendendo a tratti le distanze o annullandole completamente. Invadere i confini per poi rimetterli in discussione ancora.
Quando erano piccole una difronte all’altra facevano il gioco dello specchio.
Se muovo un sopracciglio lo muovi anche tu. Se giro la testa verso sinistra tu la muovi verso destra. Passavano ore a specchiarsi, concentratissime nella missione di emulare esattamente i gesti una dell’altra.
Ad un certo punto lo specchio smise di funzionare. Nena si scioglieva i capelli, Nina li tirava su. Nina si asciugava una lacrima, a Nena spuntava un sorriso. Gesti che si distinguevano, scelte che cambiavano, lo specchio che restituiva immagini disarmoniche, un mare increspato da un periodo nuovo.
E allora ci si chiudeva un po’. Nelle proprie camere. Nei propri silenzi. Nelle telefonate infinite con l’amica di scuola. Nei diari segreti in cui nascondere le proprie verità.
Non erano più una difronte all’altra ma schiena contro schiena come i tronchi di due alberi che si appoggiano uno all’altro per non cadere. Non guardavano più una nella direzione dell’altra ma si sostenevano nelle difficoltà.
La libertà di Nena e Nina passava attraverso il gioco delle differenze. Veniva reclamata a gran voce e a volte in modo scomposto, burrascoso perché in certi casi ci vuole la tempesta per trovare il coraggio di lasciarsi un pò. Durava sempre poco l’acquazzone. Come la terra dopo un temporale, i raggi di sole fanno evaporare la pioggia, le foglie degli alberi si scrollano di dosso il timore, il cielo si apre e mostra un azzurro luminoso.
Così Nena e Nina infilavano una mano nello spiraglio della porta che era rimasta socchiusa e se la stringevano forte circondate dai festosi fiori della tappezzeria e dal blu profondo della moquette.
Non osavano dirselo ma lo impararono con il tempo
che erano libere di allontanarsi perché tanto sarebbero sempre tornate.
La primavera a casa di Nena e Nina quando arrivava si manifestava nelle piccole cose. I pensieri dell’inverno venivano presi e stesi ai primi raggi di sole ad asciugare e semini di speranza iniziavano a crescere in mezzo ai non ti scordar di me.
Nena e Nina si affacciavano alla finestra ogni mattina in attesa di vedere la prima primula.
“Eccola guarda là!”
“La vedo la vedo anche io!”.
Improvvisavano una danza dei fiori, girando in tondo come piccole indiane.
La prima primula era una promessa, indietro non si poteva andare.
Ci sarebbero stati temporali, giorni freschi, grandinate improvvise ma l’inverno era finito.
Il chiacchiericcio fitto e disordinato degli uccellini le svegliava al mattino portando allegria al posto del buio dell’inverno appena trascorso.
E ogni momento diventava attesa. Attesa di vedere sbocciare i fiori di ciliegio, attesa della fioritura della forsizia, attesa delle margherite che venivano poi raccolte per fare ghirlande da appendere ai capelli. Ogni primavera portava nuovi desideri, sensazioni nella pancia, farfalle e formiche ai piedi. Segnali di tutta la vita che Nena e Nina volevano prendersi. Stavano cambiando. I capelli lisci si ondulavano come tralci di uva, le braccia si allungavano affusolate e le gambe facevano male, scricchiolavano la sera nel letto, come il legno quando si assesta con il calore. Cercavano di farsi spazio in un mondo ancora sconosciuto.
Nena era una gerbera gialla. I capelli chiari, il sole negli occhi, le manine piccole e delicate e rideva tanto. Accendeva stanze e cortili con le sue risate. Macchie di colore nel crepuscolo.
Nina era un’orchidea, si nascondeva tra i rami come se non volesse farsi vedere e stupiva dopo essere stata cercata, stanata, portata alla luce come la luna che spunta dietro una nuvola.
Erano diverse e unica la via che le avrebbe portate alla felicità.
Nena una primavera prese una chitarra e iniziò a suonare. Colmava le stanze con la sua voce e sentiva di non voler essere in nessun altro posto del mondo. Nina cantava con lei e quando si stufava restava accanto scomparendo un po’ tra le pagine di un libro.
In quei giorni, di quella primavera gli armadi di camera loro iniziarono ad esplodere come pop corn.
Si provavano tutti i vestiti del mondo e in nessun pantalone si sentivano loro stesse. Stavano cambiando pelle e nessun abito sembrava della misura giusta.
Lanciavano magliette per aria e qualunque felpa indossata sembrava il peggior nemico del mondo. I contorni non erano più definiti. Sei gerbera o Dente di Leone? Sei orchidea o viola del pensiero? Si guardavano e non si riconoscevano più.
C’era un posto però dove tutto sembrava sempre chiaro. Il loro bagno. Testimone di momenti tutti loro.
In quegli specchi, nelle piastrelle fredde e bianche che riflettevano la luce, sui tappetini di spugna azzurri Nena e Nina si sentivano al sicuro.
Una accanto all’altra creavano la loro terra ferma in un mondo che intorno a loro sbocciava, cresceva, cambiava velocemente. Quando le emozioni davano le vertigini, quando la pioggerella rendeva annebbiata la vista, bastava correre lì, nella loro isola protetta. A volte si parlava di cose serie ma tante altre volte no. Bastava sedersi con la schiena appoggiata alla vasca vicine vicine e una fresca risata faceva della loro sorellanza il porto in cui sapevano che avrebbero sempre trovato riparo. Uscivano da quelle sessioni segrete rigenerate. Pronte a indossare qualunque abito, perché mescolando i loro pensieri ridisegnavano i confini e si sentivano davvero nei loro panni. Se avvicini i petali di due fiori diversi cosa succede? Si libera nell’aria un profumo nuovo, la primavera di tutti i cambiamenti che rendono unico ogni percorso di vita.