La rabbia di Lea.

Lea era una bambina felice. Abitava il suo mondo con gli occhi dell’entusiasmo. Lo assaggiava un po’ per volta e ne assaporava tutte le differenze. Il sole le brillava fra i capelli e niente la rannuvolava. Indossava sempre un golfino azzurro, azzurro come il cielo terso. Un giorno Lea era seduta per terra in mezzo a una grande piazza. Sapeva che sua mamma Ninì la controllava da lontano. Lo sapeva senza bisogno di girarsi a cercarla. Bastava sentire quello strano calore lì, all’altezza del cuore. Teneva tra le mani una cannuccia viola. Era la prima cannuccia della sua vita e le sembrava che non esistesse al mondo nulla di più prezioso. Poteva mettersela tra i capelli, mangiucchiarla con i denti, soffiarci dentro e riempirla di saliva, oppure immergerla in una spremuta di quelle rosse rosse, piene di pezzettini di polpa di arancia che un po’ ti piacciono un po’ ti viene voglia di sputarli. Una spremuta. Ecco di che cosa aveva voglia adesso e Lea si alzò di scatto per andare a chiederla alla sua mamma. All’improvviso dal cielo, mentre correva, un gabbiano piombò su di lei e le rubò la sua preziosissima cannuccia. Rimase così con la manina ancora verso l’alto a stringere l’aria, al centro di una piazza mezza vuota. Poi guardò Ninì e le corse incontro piangendo.

“La mia cannuccia mamma la mia cannuccia.”

Disse la bambina mentre nel cielo una nuvola passava davanti al sole. Ninì la abbracciò e poi col sorriso sulle labbra le disse:

“ma cosa vuoi che sia era solo una cannuccia ne puoi avere quante ne vuoi. Tieni, prendi questa”

e le porse una cannuccia bianca. Lea guardò prima la cannuccia. Poi sua mamma. Dalle montagne grossi nuvoloni neri si avvicinarono e riempirono tutto il cielo. Gocce grandi come limoni iniziarono a cadere per terra. Come poteva non capire proprio lei, la sua mamma, la sua aria tiepida, il suo cuscinetto sul cuore. Aveva perduto la sua prima cannuccia, la cannuccia viola, autostrada diretta tra i suoi sogni e la sua pancia. Perché? Perché non aveva capito? Come aveva potuto offrirle in cambio quell’inutile, orribile cannuccia bianca? Poi i suoi occhi caddero sulla manica del suo golfino. Una nuvoletta bianca era comparsa a sporcare l’azzurro perfetto. Da quel momento Lea smise di essere sole e si fece spesso e volentieri tempesta. Bastava un NO per farle scagliare fulmini e un NI per farla tuonare. E se provavi a toglierle qualcosa dalle mani si salvi chi può erano grandinate con chicchi grossi come uova. Fu così che giorno dopo giorno il mondo si fece da lei sempre più distante e il suo golfino pieno di nuvole. O forse era a lei a tenersi ad un passo da tutto, delusa dal fatto che tutto avesse smesso di andare proprio come voleva lei. Sua mamma la osservava come si osservano gli extraterrestri. Un misto di timore e incredulità alla ricerca di un linguaggio per comunicare:

“io essere mamma tu chi essere diventata bimba?”.

E Lea rispondeva fulminandola con gli occhi. E ad ogni attacco di rabbia e frustrazione al suo golfino si aggiungeva una nuvola. La mamma provò a lavarlo. Usò tutti i prodotti esistenti sul mercato. Ma non c’era modo di farlo tornare come prima. Un giorno Lea e Ninì stavano passeggiando sotto un viale di pioppi. Nell’aria volteggiavano pollini e svolazzavano farfalle. Lea all’improvviso si fermò e chiese:

“Mamma vorrei una spremuta!”.

Poco più in là c’era un bar. Aveva i tavolini sotto l’ombra degli alberi e le sedie verdi come i prati. Si sedettero una di fronte all’altra. Lea muoveva i piedini avanti e indietro felice con il sole fra le ciglia. Ordinarono due spremute. La cameriera arrivò e appoggiò una spremuta davanti alla mamma e una davanti a Lea. Quella della mamma aveva una cannuccia viola. Quella di Lea azzurra. Lea chiese a Ninì di fare cambio. Lei accettò. In quel momento una nuvoletta scomparve dal golfino azzurro e ritornò nel cielo. Lea non se ne accorse nemmeno. Ma sua mamma sì. Vide gli occhi della bimba riempirsi di stelline e la nuvoletta all’altezza del cuore scomparire in un battito di ciglia. E si ricordò che nella vita una cannuccia bianca e una viola non sono la stessa cosa. Un suono ruppe all’improvviso la calma primaverile. Un gabbiano volava proprio sopra le loro teste emettendo versi minacciosi.

“Mamma aiuto vuole prendere di nuovo la mia cannuccia!”.

Ninì questa volta si fece leone e decise che avrebbe impedito a tutti i costi che l’uccellaccio portasse via la preziosa canuccia  viola. Si alzò in piedi e allungò verso il cielo il suo ombrello. Il gabbiano svolazzò un attimo confuso sopra le loro teste poi incuriosito dall’ombrello si precipitò in picchiata verso Ninì. Poco più in là un bimbo giocava a palla con suo papà. Il gabbiano attirato dai movimenti in fretta volò via. Ninì pensò di non aver fatto chissà che ma agli occhi di Lea invece era stata grandiosa, una vera paladina delle cannucce! Corse da lei e le strinse le braccia al collo. Altre due nuvolette evaporarono dal golfino e diventarono rugiada. Da quel giorno Ninì si ricordò che le questioni dei piccoli sono grandi questioni. E Lea giorno dopo giorno imparò ad esprimere le sue emozioni. Costruirono insieme un enorme cuscino pieno di nuvole e fulmini e saette e ogni volta che la bambina si arrabbiava lo prendevano a pugni insieme. Ninì le insegnò anche a urlare.

“Se urli i dispiaceri volano via! Come il gabbiano!”.

E allora urlavano forte e subito tornava il sorriso. Il golfino non tornò mai completamente azzurro. Ma un cielo senza mai una nuvola non sarebbe stato interessante come la vita.

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