La precisione di Mia.

Di Anna Ponti – Illustrazione di French Carlomagno.

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Mia era molto precisa e organizzata. Tutta puntini sulle “i”, organigrammi e procedure. Le sue giornate erano sempre pianificate in anticipo e organizzate in appuntamenti premeditati e distribuiti dal mattino alla sera con orari prestabiliti. Per essere sicura di non sgarrare di un secondo, indossava sempre diversi orologi. Ne aveva uno al polso, uno fra i capelli, uno a farle da cintura, poi c’era l’anello orologio, la borsa orologio, le paperine con la fibbia orologio e, per i giorni di pioggia, c’era anche l’ombrello orologio. In questo modo era sicura di essere sempre puntualissima e di non perdere nemmeno un minuto del suo preziosissimo tempo. 

L’imprevisto nella sua vita non esisteva. Tutto andava, sempre, così come lei l’aveva prestabilito. Un lunedì mattina, dopo aver mangiato 4 biscotti, bevuto 20 ml di caffè latte, essersi spazzolata 6 volte i capelli e aver indossato l’abito del lunedì, alle 9.35 Mia uscì di casa per andare a camminare, come ogni giorno, lungo il fiume. Un passo dopo l’altro si incamminò verso la sua panchina per dedicare 30 minuti alla lettura della gazzetta dei pignoli. Arrivata a destinazione, per un attimo la sua pressione sanguigna si alzò. Un orologio iniziò a ticchettare all’impazzata e le cadde dai capelli. Non era possibile. Qualcuno aveva occupato il suo posto. Sotto un tiglio profumato, un grande Panda si era seduto sulla panchina e guardava il fiume. 

Chi è? Come osa? Pensò Mia tra sé. 

Dopo un attimo di smarrimento, la sua mente si riappropriò della sua capacità organizzativa e, per evitare di modificare i programmi facendo saltare i piani di un’intera giornata, decise di andare a sedersi comunque sulla sua panchina, ritagliandosi un piccolo angolo dove poter leggere in santa pace la gazzetta. 

Permette? Chiese tutta nervosa al Panda.

Il panda si girò, e con un sorriso grande e invitante come un portone le rispose:

Certo! Siediti. Con profondissima calma spostò la sua enorme massa di pelo per farle posto. 

Mia lo guardò. Una sensazione sconosciuta bussò al suo cuore ma lei la ignorò, aprì il giornale e provò a leggere. Faceva fatica a concentrarsi.

Chissà da dove arriva. Pensò.

Il Panda profumava di buono. Di bambù, di latte di cocco e di riso basmati.

Era un Panda naturalizzato Italiano. Studiava filosofia e per mantenersi lavorava come cameriere in un ristorantino di ravioli cinesi. Adorava ballare sotto le stelle e collezionare cappelli.

Oggi è una bellissima giornata. Disse lui all’improvviso. 

Una giornata perfetta per andare a bagnarsi le zampe nel fiume. 

Ti andrebbe di venire con me?

Ho da fare. Rispose sbrigativa.

Piacere. Mi chiamo AI. 

Ai. Ripeté Mia nella sua mente. Che bel nome. 

Uno dei suoi orologi suonò. Era ora di andare. Si alzò per andarsene ma prima di allontanarsi guardò il Panda e accennando un piccolo sorriso si presentò:

Io mi chiamo Mia. 

Ciao Mia. Spero di rivederti.  

Mia sentì una piccola scossa di elettricità nel cuore e questa volta non poté ignorarla.

Il resto della giornata filò liscio, tutto andò così come doveva andare. 

La mente di Mia però era da un’altra parte. Non riusciva a smettere di pensare all’incontro della mattina.

Il giorno seguente, dopo aver mangiato 4 biscotti, bevuto 20 ml di caffè latte, essersi spazzolata 6 volte i capelli e aver indossato l’abito del martedì, alle 9.35 Mia uscì di nuovo casa per andare a camminare come ogni giorno lungo il fiume. Un passo dopo l’altro si incamminò verso la sua panchina. A differenza degli altri giorni però, mentre passeggiava, invece di pensare agli appuntamenti della giornata, si lasciò scaldare dal sole di giugno, respirò il profumo dei tigli, ascoltò il rumore del fiume e il canto degli uccelli e soprattutto, sperò nel profondo del suo cuore di ritrovare Ai seduto sulla sua panchina. Invece no. La panchina era vuota. Ai non c’era. Una ventata di tristezza la avvolse. 

Dopo un attimo di smarrimento cercò di reagire. Si riappropriò della sua mente organizzativa e andò a sedersi per dedicare 30 minuti alla lettura della gazzetta dei pignoli. 

Al ventinovesimo minuto arrivò Ai. 

Ciao Mia. 

Un’esplosione fece sobbalzare il suo cuore. Mia non poté ignorarla. 

Ciao Ai. Rispose. 

Poi guardò l’ora. Pochi secondi e in base ai programmi se ne sarebbe dovuta andare. 

Ci pensò un istante, poi prese un’importante decisione. Per la prima volta, Mia girò l’orologio che aveva al polso verso il basso e lo ignorò.

Quel giorno nulla andò come aveva previsto. 

Mia e Ai misero i piedi nel fiume, mangiarono ravioli, rimasero ore distesi su un prato a vedere animali nelle nuvole, raccolsero le ciliegie, parlarono di tutto e di niente. 

Fu il giorno più bello della sua vita. 

Il giorno in cui tutto andò come davvero doveva andare.

La bambina che viveva nel parquet.

Di Anna Ponti. Illustrazione di Madeleine Frauchaux.

Angelina è una bambina piccola come una formica e sottile come un filo d’erba.

Vive tra le strette fessure del parquet di una luminosa casa tra le colline.

Non vive lì da sempre, tra un tassello di legno e un altro.

Prima amava stare un po’ di qua e un po’ di là, distesa su un comò, in bilico su un vaso di fiori, rilassata tra gli asciugamani puliti… finché un giorno d’inverno, mentre guardava un sole croccante dalla finestra qualcosa la spaventò. Era una sensazione senza capo né coda, un vento immobile. Un freddo umido che sapeva di fango e di bagnato, un colpo d’aria e di tosse carico di parole sussurrate. Quella sensazione senza luce la spaventò così tanto che a passi piccoli piccoli pensò di correre a rifugiarsi tra le fessure del parquet.

Velocemente il legno asciugò la sua paura.

La vide, ritirarsi, evaporare come una pozzanghera.

“Non avere paura Angelina. Qui sei al sicuro.” Fu il legno a parlare. Era un legno di quercia. Rude e saggio come solo un grande albero teso fra la terra e il cielo sa essere.

Angelina vive lì da quel giorno d’inverno.

Da allora passa le giornate a scaldarsi ascoltando le storie che il legno di quercia le racconta. Storie di uccelli in volo, di fiocchi di neve innamorati delle foglie, di fate nascoste e di case sugli alberi. I suoi racconti preferiti sono quelli di Libero, un bambino piccolo come una formica ma forte come una montagna. Libero non ha paura di vivere.

Vola a cavalcioni sulle libellule, si aggrappa al pelo soffice di qualche cane in corsa, si arrampica in cima agli alberi e guarda il mondo dall’alto, si lancia nei fiumi in piena e dorme sonni profondi e sereni. Non ha paura di stare con i piedi per terra e nemmeno di toccare il cielo con un dito. Non teme la fine del giorno e nemmeno un nuovo inizio. E soprattutto non ha paura del freddo. Sa che il gelo ogni tanto arriva ma poi, semplicemente, passa.

Angelina adora le sue avventure. Le ascolta appoggiando i piccoli gomiti sul legno profumato. Guadando verso l’alto, a pancia in giù, muove i piedini avanti e indietro e sogna di volare insieme a lui su soffici distese di nuvole rosa.

Quel giorno Angelina si sveglia prima del solito. Una insolita emozione le solletica la punta dei piedi. È una sensazione sottile come un velo ma elettrizzante come un anticipo d’estate.

Poi un rumore. Puro e cristallino. Qualcuno ha bussato alla finestra di vetro della casa in collina.

Angelina non ha bisogno di chiedere. Senza pensarci un attimo si arrampica e, dopo tanti tantissimi anni, riemerge per la prima volta dalla fessura del parquet. Un’aria nuova la sta chiamando, un evento libero, di nome e di fatto.

Angelina si china e avvicina le piccolissime labbra al legno caldo.

“Grazie saggio amico mio”.

“Vola piccola. È il momento di ritornare a vivere. Te l’avevo detto che il freddo sarebbe passato”.

Angelina raggiunge il davanzale. Una piccola mano prende la sua.

Lei si lascia delicatamente trascinare via.

È l’inizio di una nuova vita. È l’inizio di una nuova storia.

Quella in cui il freddo ogni tanto arriva e poi semplicemente, passa.

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Lettera al mio pesciolino.

Volevo dirti che cercherò di essere più serena, di avere occhi pieni di stelle, sorprese, meraviglie.

Perché lo so che tu leggi le mie sfumature e respiri la paura.

E sì, io ho avuto un po’ paura.

Lo so che capisci un linguaggio che non è fatto di parole ma di sensazioni e che forse negli ultimi mesi mi hai vista preoccupata.

Volevo dirti che sfrutterò questi giorni per ritornare ad essere leggera e farti volare un po’. Ti farò il solletico, ti farò annusare tutti i fiori della primavera, ti riempirò di baci.

Volevo dirti che sì, ci saranno dei cambiamenti e che li vivremo insieme, mano nella mano. È una promessa.

Volevo dirti che non farò più finta di nulla. Ti parlerò per raccontarti che essere in quattro sarà un’avventura. E se soffrirai un po’, asciugherò ogni tua lacrima e ti abbraccerò ancora di più e ti porterò da qualche parte per essere di nuovo per un attimo solo io e te.

Volevo dirti che ti amo più di ogni altra cosa e che non so come sarà possibile amare un altro bimbo come amo te. Eppure accadrà. Il mio cuore si farà ancora più grande per ospitarvi tutti quanti.

Volevo dirti che da oggi cercherò di smettere di pensare a quel che sarà. Mi concentrerò su di te, su di noi, su questo nuovo sole che inizia a riscaldarci l’anima.

Volevo dirti grazie. Perché mi guarisci ogni giorno di più e mi insegni ad essere una persona migliore.

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La bici di Francesca.

Di Anna Ponti. Illustrazioni di Alice Lia.

C’era una volta in cima ad un monte di pietra una grande casa bianca tutta spigoli. All’ultimo piano abitava Francesca. Francesca aveva dei bellissimi capelli ribelli e lunghi, legati sempre stretti stretti in uno chignon.

 

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Così sei più ordinata. 

Non usciva quasi mai perché sua mamma, che aveva paura di tutto anche della propria ombra, temeva che fuori lei potesse farsi male. La loro unica uscita settimanale, era quella del mercoledì mattina per andare al mercato nel paese in fondo alla valle.

Tieni la mia mano e non lasciarla per nessun motivo.

Francesca, con la mano strizzata in quella di sua madre, guardava i prati ricoperti di fiori e sognava di poterci affondare la faccia in mezzo. Sognava di distendersi e di scomparire in quel mare colorato. Di chiudere gli occhi e di ascoltare il rumore del vento. Di guardare il cielo e di sfiorare le nuvole con le dita. Sognava di sciogliersi i capelli e di riempirli di papaveri rossi.

Un giorno, al mercato, appoggiata ad un muro, Francesca vide per la prima volta una bicicletta. Era verde, scintillante, era la cosa più bella che lei avesse mai visto.

Mamma che cos’è?

È una bicicletta tesoro.

Ne vorrei tanto una.

Ma sei matta? È pericolosissima!

Ma Francesca da quel giorno non riuscì a smettere di pensarci. Dall’ultimo piano della casa sul monte immaginava di pedalare, pedalare fino a non poterne più. Fermarsi a riposare accanto ad un fiume e poi svegliarsi e ripartire. Ogni giorno una nuova meta. Ogni giorno una nuova corsa. In sella alla sua bici fino all’altro capo del mondo.

Una notte Francesca dormiva serena nella sua cameretta quando un rumore improvviso la svegliò.

Raggiunto il terrazzo, vide una macchia scura per terra. Era una meravigliosa civetta che era andata a sbattere contro un vetro. Francesca avvicinò il suo viso alle piume soffici e si accorse che era ancora viva. La prese tra le braccia e la portò in casa. Si prese cura di lei per una settimana. Portandole acqua, cibo e accarezzandola con amore. Finché finalmente la civetta, una notte riaprì gli occhi e cominciò a parlare.

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Grazie per esserti presa cura di me. Per sdebitarmi vorrei realizzare un tuo desiderio. Dimmi. Cosa sogni più di ogni altra cosa?

Francesca non ebbe dubbi.

Io voglio una bicicletta.

E allora la avrai.

La civetta aprì le sue grandi ali e volò via scomparendo fra gli alberi.

La mattina dopo Francesca si svegliò all’alba. Una strana aria tiepida la venne a cercare in camera sua sussurrandole di alzarsi. Seguendo quel dolce filo di vento, un passo dopo l’altro, in punta dei piedi, attraversò tutta la casa fino al portone d’ingresso che, lentamente, spinto da una forza intensa come un desiderio, si spalancò. Francesca rimase senza parole. Appoggiata ad un cavalletto, lucida e splendente, c’era una bicicletta. Era gialla come il grano e aveva un meraviglioso cestino di paglia pieno di papaveri rossi. Francesca se ne mise uno fra i capelli, chiuse gli occhi e respirò a fondo.

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Poi con il cuore colmo di felicità e di paura, salì sulla sella e iniziò a pedalare. Prima piano poi sempre più veloce per sfrecciare incontro al suo destino di donna libera con i suoi lunghi capelli sospesi nel vento.

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Il mio cuore fa.

Din don din don din don. Muovi la tua testolina come una campana e il mio cuore fa din don din don. Poi ci salutiamo. Tu fai mezza lacrima io un fiume di lacrime. E ti lascio cominciare le tue prime giornate senza di me e imparo. Imparo a lasciare andare. A portarmi il mio amore dentro. Din don din don din don. Ascolto la tua voce piccola. Lascio che mi sostenga. Che mi trasmetta il coraggio di essere sempre vera, sempre forte. Din Don din don din don. Penso alla tua testolina e i miei pensieri si colorano di rosa e vorrei essere un uccellino o una farfalla, per osservarti dall’alto e vederti fare i tuoi primi passi senza di me. Din don din don din don. Suona la campana, è l’ora del te. L’ora di tornare da te.

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Solo per farti ridere.

Farti galoppare un cavallino piccolo piccolo sulla fronte. Cantare la stessa canzone ogni giorno fino ad averne la nausea “Cucù Hibou Cucù Hibou Cucù!”. Tenerti in braccio mentre papà ti bacia tutta. Sbattere per dieci minuti una maglietta prima di stenderla. Chiamare in maniera ossessiva le gatte per nome “NINIII POTTEEE NINIII POTTEEE NINIIII POTTEEE”. Farti annusare tutti i fiori. Farti i grattini sotto il mento con due mani con tutte le dita. Nascondermi sotto un lenzuolino e ricomparire all’improvviso. Inseguirti gattonando fino a farmi venire le ginocchia viola. Farti planare Raffa la giraffa sulla testa. Soffiarti sulla faccia. Farti il solletico sotto le ascelle e le pernacchie sulla pancia. Sciogliermi i capelli e trasformarmi in Axl Rose. Fare tutto questo e poi ricominciare da capo. Solo per farti ridere.
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Gli occhi di Cate.

Di Anna Ponti. Illustrazioni di Sefora Pons.per annaCaterina aveva occhi color smeraldo capaci di far sorridere il mondo.
Se entrava in una stanza buia all’improvviso ogni angolo si accendeva di una luce dorata, i vasi si riempivano di fiori e gli specchi riflettevano immagini di paesaggi mozzafiato.
Caterina possedeva una borsa magica, rossa con un grande orologio al centro, che scandiva le ore, i minuti e i secondi delle sue giornate.
Con quell’orologio riusciva a far durare ore un’occasione fantastica e pochi secondi un momento noioso. Avere Caterina nella propria vita era un regalo meraviglioso.

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Un giorno, senza preavviso, l’orologio si fermò e Caterina sparì.
Tutti piansero a lungo la sua scomparsa. Il mondo sembrava inconsolabile.
I vasi, gli specchi e gli occhi delle persone rimasero vuoti per un tempo infinito.
Passò l’inverno, arrivò la primavera, poi l’estate ma la tristezza sembrava non passare mai.

Poi un giorno, dopo aver servito un caffè macchiato caldo, uno macchiato freddo, un ristretto e un dec, il vecchio, proprietario del bar dove Caterina andava ogni mattina a fare colazione, improvvisamente, scoppiò a ridere.
Prima piano, poi sempre più forte. La sua risata raggiunse ogni angolo della terra portando un messaggio di felicità: Caterina c’era ancora. Il vecchio, in quel bar, l’aveva incontrata inaspettatamente nel proprio cuore. Da quel momento, tutti, chi prima chi dopo, iniziarono a ritrovarla. Non la vedevi, forse, ma la sentivi. Saltava da un cuore all’altro e dava consigli, raccontava barzellette, colorava i pensieri di azzurro e le emozioni di giallo. Il mondo ritornò a sorridere, gli specchi a riflettere e i fiori a sbocciare.

Il tempo passa. Le mezze stagioni non ci sono più, i nostri capelli cambiano colore.
Qualcuno parte, qualcun altro resta.
C’è chi si innamora, chi si lascia, chi cade e poi si rialza.
C’è chi va in apnea, chi respira fortissimo, chi rallenta e chi corre troppo.
Caterina è sempre lì. Sempre lei. Dentro di noi. Un pensiero di intramontabile allegria.
Per questo se vi capita di vedere una persona ridere da sola non vi stupite.
Probabilmente c’è Caterina nel suo cuore.

Buonanotte ai sognatori.

Notte. A te amore mio. Che mi sopporti, che mi sostieni, che mi fai ridere quando parli dormendo e con un filo di voce dal tuo lato del letto (che evidentemente è Africa) chiedi “Aacquaaa”.

Notte a voi gatte. Che invece di dormire ci impastate la schiena e correte per la casa miagolando alla luna.

Notte Nonna. Stringo la tua mano sottile come un filo d’erba e non la lascio andare.

Notte nipotini. Quelli già nati e quelli in arrivo. Spero di essere per voi una buona zia.

La zia un po’ matta, un po’ hippy quella che fa yoga e parla con le piante.

Notte a voi. Colleghi amici. Che in questi giorni siete pronti a difendermi. Alti, forti, buoni.

Notte occhi nuovi. La tristezza è rimasta su un lenzuolo d’ospedale un pomeriggio di ferragosto.

Notte Dora. Fiume che accogli le mie preoccupazioni e le porti lontano.

Notte amici. Pochi, veri, vicini e lontani. Siete il riflesso della mia felicità.

Notte corpo. Lo so, sei stanco, sei stressato, vorresti dormire di più. Tieni duro. Sto cercando di prendermi cura anche di te.

Notte paure. Fedeli compagne. Vi vedo… vi conosco mascherine! Vi abbraccio e con un respiro vi trasformo.

Notte desideri. Vi tengo al caldo. Vicino alla mia pancia.

Notte passato. Sei stato un maestro. Ora però… ciao eh!

Notte Bambina mia. Sole della nostra casa. Quando ti guardo il mio cuore esplode.

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Due passi con Gegia.

Ho letto una notizia fantastica. La storia di un uomo che ogni giorno va a spasso con la sua tartaruga. E ho pensato che sarebbe bellissimo. Andare piano piano per aspettarla. Godersi la vita. Lasciare il tempo scorrere senza trattenerlo, senza rincorrerlo. Parlerei di tutto. Mi innamorerei, forse, per un’oretta e poi anche basta. “Ciao noi andiamo un po’ più in là”. Imparerei ad avere pazienza. Solo per lei. Per non lasciarla sola. Mi divertirei un sacco. A bloccare il traffico, regolarlo. Per farla attraversare. Guarderei le ombre spostarsi con il sole. Dichiarerei tutte le ore con voce altisonante “Sono le 12 e tutto va bene!”. Prenderei molti caffè. Accetterei un fiore. Respirerei un pezzo di focaccia e alla fine non resisterei “Un trancio di quella lì con i pomodorini e le olive”.  Mi farei leggere da un giornalaio una bella notizia. La presenterei, con orgoglio, a tutti: “Si chiama Gegia. È la mia tartaruga.” Andrei al cinema, mentre lei percorre il suo isolato con calma. Ricomincerei a fare yoga. Con il mio tappetino, io concentrata sul mio respiro e Gegia sui suoi passi. Leggerei un libro seduta su una panchina. E verso sera la aspetterei al tavolino di un bar, bevendo uno spritz, spettegolando un po’, immaginandoci un futuro felice come questo presente.

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L’allegra leggenda dei Sapitos.

C’era una volta, molto lontano, oltre l’oceano, una città piena di sole e di allegria. Era la città dei Sapitos. minuscole rane trasparenti, più rumorose di un esercito di tamburi. Narra la leggenda che due giovani scienziati, una notte di moltissimi anni prima, avessero deciso di liberare alcuni animali sui quali un laboratorio stava facendo terribili esperimenti. Fu così che una coppia di Sapitos finì nell’erba fresca. Ma i Sapitos si sa, sono innamorati dell’amore e in breve tempo i due minuscoli piccioncini, ebbri di libertà, saltellando iniziarono a mettere su famiglia. Da due diventarono 4, poi 8, poi 16 e in men che non si dica diventarono una vera e propria colonia che invase tutte le aree verdi della città. I Sapitos dormivano di giorno e si scatenavano di notte danzando, ballando ma soprattutto suonando. Al posto delle dita avevano infatti piccolissime nacchere. Bastava muovere un pollice e immediatamente si accendeva un’indimenticabile festa che andava avanti fino all’alba. Ad alcuni però, tutta questa chiassosa gioia non andava proprio a genio. Molti cittadini passavano le giornate a lamentarsi. La situazione ad un certo punto iniziò a degenerare. Gli abitanti della città erano pieni di odio.

Andate via! Mostri!

Per la prima volta nella loro vita le ranocchiette cominciarono a sentirsi tristi.  Ad una giovane Sapitos, una notte scese addirittura una lacrima. La notizia, velocemente, raggiunse il vecchio capo della colonia, il quale, facendo scoppiettare una nacchera verso il cielo, affermò:

Basta. Ce ne andiamo. Peggio per loro!

Fu così che in una notte di luna piena l’intera colonia di anfibi se ne andò. All’improvviso, per la prima volta dopo anni e anni, la città piombò in un assoluto silenzio. Quando gli abitanti si resero conto dell’accaduto, dopo un attimo di stupore, iniziarono subito a congratularsi l’un l’altro.

Era ora!

Ora sì che si ragiona!

Dopo un po’ di tempo tutto quel silenzio iniziò a pesare. La città era spenta, pigra e prevedibile. Non c’erano più feste, non c’era più musica, non c’erano più sorprese. I cittadini cominciarono ad annoiarsi terribilmente. E la noia, crebbe, giorno dopo giorno fino a far piombare l’intera comunità in una profonda tristezza. Gli esseri umani all’improvviso si resero conto del grande errore che avevano fatto. Avevano passato così tanto tempo a pensare al rumore che si erano dimenticati che la vita, senza un po’ di scompiglio, era grigia e monotona.

Fu così che il sindaco, dopo aver meditato a lungo prese una importante decisione:

Facciamoli tornare.

Una delegazione di umani raggiunse la colonia di Sapitos e dopo una lunga trattativa li convinse a tornare in città. Le piccole rane fecero promettere che nessuno li avrebbe mai più odiati e che sarebbero stati liberi di fare tutte le feste che volevano. Rientrarono in città suonando come non avevano mai suonato, ridendo come non avevano mai riso, danzando come non avevano mai danzato. Tutti insieme, rane e esseri umani, parteciparono alla più grande festa che fosse mai stata realizzata.

I Sapitos, si scatenarono a tal punto che dovettero dormire una settimana intera per riprendersi.

Da quel giorno tutto cambiò.

I cittadini impararono ad apprezzare lo scompiglio.

I Sapitos a riposarsi, ogni tanto.

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